Ci siamo lasciati nella prima puntata della storia del manifesto pubblicitario parlando di Jules Chéret e della fusione che ci fu a fine '800 tra belle arti e comunicazione di massa; proprio questo avvicinamento delle arti grafiche al grande pubblico fu il punto di svolta dei primi del '900.
Siamo agli inizi del '900 e si sentono nell'aria gli effetti della seconda rivoluzione industriale, che coinvolgono tanto il mercato e l'industria quanto il modo che il pubblico ha di percepire queste due entità; è proprio in questo periodo che si inizia a pensare alla compravendita in termini di marketing, in modo sempre più simile a quanto facciamo oggi.
Come dicevamo, ormai le produzioni grafiche erano parte dell'immaginario comune grazie all'editoria di massa e ben presto si intuì che c'era tutta una psicologia dietro all'interesse che i manifesti pubblicitari suscitavano nel loro pubblico: con il giusto coinvolgimento le immagini potevano essere usate per orientare il comportamento di chi le vedeva.
La cartellonistica pubblicitaria d'inizio secolo mostrava situazioni di piacere, di benessere e di divertimento della bella società; la scenografia era raffinata e i manifesti avevano cifre stilistiche simili a quelle dei quadri.
Si iniziò a prestare più attenzione alla psicologia del consumatore e a proporgli immagini e prodotti che potessero soddisfare i suoi desideri (uno dei principi cardine del marketing); i marchi iniziarono a costruire la loro identità di mercato, inzialmente con gli slogan e successivamente abbinando lo slogan a delle immagini.
In quest'ottica, il manifesto pubblicitario serviva a suggerire che ci fosse un nesso tra il prodotto pubblicizzato e le persone che l'avrebbero consumato. Questa intuizione segnò la nascita del marketing e della psicologia della pubblicità per come la conosciamo oggi, anche se ovviamente il secolo scorso era solo agli albori.
Con l'arrivo della prima guerra mondiale lo scenario inevitabilmente cambiò, non era più tempo di consumi voluttuari e gli uomini eleganti e le donne sorridenti furono in breve tempo sostituiti da soldati col dito puntato in cerca di reclute o finanziamenti.
Anche chi cercava di pubblicizzare se stesso lo faceva ambientando le réclame nelle trincee, emblematico è l'esempio di Campari: nel manifesto pubblicitario sono rappresentati un gruppo di soldati che fanno la guardia in trincea, accanto ai fucili è rappresentata una bottiglia di Campari oversize a suggerire come il prodotto possa unire e confortare anche in situazioni estreme.
Anche una volta terminata la guerra il mondo era cambiato e insieme a lui i bisogni e ideali delle persone; la pubblicità non potè che adattarsi e non si tornò più ai manifesti pubblicitari della Bélle Epoque tendendo invece a un minimalismo più rigoroso e d'impatto.
La cartellonistica pubblicitaria non scomparve e in questi anni si vedevano convivere manifesti pubblicitari e manifesti propagandistici politici.
A questo punto era ormai chiaro che il manifesto era un potente mezzo di comunicazione pubblicitario.
In quegli anni la stampa di manifesti era molto forte in Italia così come in altri paesi europei (ma non da meno negli Stati Uniti e in Russia) in quanto il manifesto era l'unico strumento in grado di convincere il popolo attraverso le parole e le immagini. Casi esemplari la richiesta di prestito nazionale in Italia e il reclutamento dello Zio Sam.
È in questo periodo che gli autori di manifesti scoprono il valore della grafica e dei caratteri tipografici. Si combinano forme, colori, simboli per attirare in ogni modo lo sguardo del lettore.
Una grandissima influenza nella propaganda politica arrivò sicuramente dal Movimento Futurista con un lettering obliquo, caratteri cubitali e massicci, ambientazioni surreali e messaggi dal forte impatto visivo ed emotivo per attrarre l'attenzione alla lettura dei manifesti.
La storia del manifesto non finisce qui, ma continua nella prossima puntata della nostra rubrica.
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